Fino agli anni del Medioevo, fino al tempo degli Aldobrandeschi, Sovana era la capitale della regione dei tufi. Il suo predominio cessò quando gli Orsini scelsero Pitigliano come loro capitale politica e Sorano come roccaforte militare del proprio regno familiare. Sovana sembrò, allora, smarrirsi per sempre.
Quasi nessuno riusciva a vivere su questo pianoro, il paese divenne un deserto flagellato dalla malaria. Solo il turismo, nella seconda metà del ‘900, ha fatto rinascere la sua economia. Oggi i contadini di Sovana producono vini eccellenti, gestiscono agriturismi e fra le case del paese, colme di storia antica, si affolla una geografia di ristoranti e botteghe di artigiani.
Mille anni avanti Cristo, il pianoro di Sovana era abitato da comunità protostoriche. Anche gli etruschi vi costruirono i loro villaggi nel VII secolo a.C.: questo era territorio di Vulci e Sovana, fortificata con mura di tufo, era un avamposto importante lungo le strade della Maremma, insediamento strategico dell’Etruria meridionale. Sovana sopravvisse alla caduta di Vulci. Anzi, gli invasori romani furono generosi: le concessero autonomia e libertà impreviste. Sovana acquistò potere e prestigio, al punto che, nel V secolo dopo Cristo, divenne sede vescovile. Conquistata dai Longobardi alla fine del V secolo, venne liberata da Carlo Magno (e il suo paladino Orlando lasciò una colossale impronta della sua mano in un masso alle porte di Sovana): il più grande re di quel Medioevo ne fece dono a papa Adriano I.
Divenne terra degli Aldobrandeschi. Sovana fu la capitale della contea controllata da un ramo della famiglia longobarda. E un prelato sovanese, Ildebrando da Soana, fu così abile e tenace da riuscire a salire, nel 1073,fino al seggio pontificio. Fu un papa potente e guerriero, Gregorio VII. Usò la spada per redimere le anime, ridisegnò la mappa del potere medioevale e costrinse l’imperatore tedesco Enrico IV all’umiliazione di Canossa. Il microstato degli Aldobrandeschi visse anni di fulgore. Ma stavano per arrivare sette secoli di oscurità. Gli Orsini, nuovi padroni di queste terre, trasferirono la loro capitale a Pitigliano, Sovana smarrì la sua gloria. Crollò l’economia contadina, peste e malaria fecero stragi, gli abitanti fuggirono verso altri paesi. Anche il vescovo andò a vivere a Pitigliano. Nel 1414, a Sovana vivevano appena ottantasei abitanti. Nel ‘600, i Medici, nuovi signori della Maremma, cercano di incoraggiare coloni albanesi a venire a vivere sui pianori del tufo. Arrivarono anche cento e sessanta famiglie di coloni greci. Niente da fare, la malaria e la povertà non ebbero pietà: nel 1702, a Sovana abitavano appena ventiquattro persone.
Anche i Lorena tentano la strada del ripopolamento: 58 famiglie di nuovi coloni vennero a vivere nelle campagne di Sovana, ma la sua maledizione falcidiò anche questa popolazione. Maria Callais, ultima superstite di quell’emigrazione disperata, morì nel 1821. Nel 1833, passa per Sovana, il geografo toscano Emanuele Repetti. Le sue cronache sono sconfortanti: Repetti è addolorato da ‘cotanto misero stato’ di quattro case semidiroccate. I viaggiatori ottocenteschi ribattezzano Sovana come la ‘città di Geremia’, paese affamato e desolato, come Gerusalemme dopo le razzie dei babilonesi, profetizzate dal duro sacerdote biblico.
Sono solo 64 gli abitanti di Sovana quando Repetti passa per questa Maremma solitaria. Un pugno di contadini che, un giorno, si fermarono, diffidenti, a osservare un inglese calato in Maremma a frugare fra rovi e pietre, fra grotte scavate nel tufo e macchie inestricabili. Viaggiava con un cavalletto e fogli da disegno. Appariva strambo e sognante. Ma era testardo nell’aprirsi cammini nei fitti boschi che coprivano le rupi. Nel 1843, Samuel James Ainsley, pittore paesaggista e archeologo, riportò alla luce straordinarie necropoli. Riapparve, così, a metà dell’800, la grandiosità di una città perduta. Nessuno, allora, intuì che la memoria dell’antichità stava facendo ritrovare a Sovana il filo del suo futuro.
Testi e immagini tratti su concessione dal libro: Musei di Maremma - Il grande Museo di Sorano, Andrea Semplici, Edizioni Effigi, 2016 e da La Maremma dei Musei, Andrea Semplici, Edizioni Effigi, 2012.
Fotografia di Andrea Mearelli.Il testo di questa scheda è coperto da Copyright e ne è quindi vietata la copia, la riproduzione anche parziale o l'utilizzo con qualsiasi mezzo.
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Tre strade. La via di Mezzo, la via di Sopra, la via di Sotto. Una sorprendente e fragile pavimentazione in cotto, mattoncini a spina di pesce, voluta ai tempi del Granducato mediceo. Ai due estremi del paese, gli edifici dei due poteri: a oriente i ruderi dell’anno Mille del castello degli Aldobrandeschi, verso occidente, a chiudere il pianoro, il bellissimo Duomo del X secolo.
La piazzetta principale, quando è libera dalle auto, è una scenografia da Medioevo di gloria e potenza. Guardatevi attorno ruotando su voi stessi: ecco l’antichissima chiesa di San Mamiliano, evangelizzatore della Maremma, oggi trasformata in Museo; poi il cinquecentesco palazzo Bourbon del Monte e la chiesa di Santa Maria (XII secolo) che custodisce un ciborio preromanico unico in Italia. Chiude questo palcoscenico architettonico la curiosa palazzina dell’Archivio (un tempo palazzo Comunale) con il suo orologio fermo, da almeno due secoli. Ecco la loggia del Capitano con il blasone mediceo e, infine, il palazzo Pretorio (XII secolo) con i nove stemmi dei capitani del popolo che hanno governato Sovana. Questa piazzetta ha la superbia di una quinta teatrale.
Testi e immagini tratti su concessione dal libro: Musei di Maremma - Il grande Museo di Sorano, Andrea Semplici, Edizioni Effigi, 2016 e da La Maremma dei Musei, Andrea Semplici, Edizioni Effigi, 2012.
Fotografia di Carlo Bonazza
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La chiesa di San Mamiliano si affaccia sulla piazza del Pretorio con ingresso a fianco del palazzo Bourbon del Monte.
La chiesa, la più antica del centro storico, fu costruita in periodo paleocristiano su preesistenti strutture etrusco-romane e risale, secondo alcuni storici, quanto meno al VII secolo quando divenne la prima sede vescovile della diocesi.
Ulteriori lavori di ampliamento vennero effettuati in epoche successive, ma comunque entro il Duecento.
Il successivo trasferimento della cattedra vescovile presso il Duomo, la cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, e il lento ed inesorabile declino conosciuto dalla città dal periodo della dominazione senese in poi, hanno portato ad un graduale abbandono dell'edificio religioso che, nel corso dei secoli, è andato incontro ad un progressivo degrado che ha compromesso parte della struttura e la perdita del tetto di copertura.
Recenti restauri hanno permesso di riportare la chiesa agli antichi splendori, oltre a portare alla luce numerose tombe e perfino un tesoro di circa 500 monete d'oro fior di conio che era segretamente custodito sotto l'antico pavimento. Si tratta di 498 solidi d'oro coniati sotto Leone I e Antemio, tra il 457 e il 474, rilevante per numero di pezzi e numero di imperatori rappresentati. Il tesoro, per il quale è stato appositamente creato un museo inaugurato il 30 luglio 2012, è forse il celebre "tesoro di Montecristo", che Alexandre Dumas descrisse basandosi su leggende popolari. Almeno tre documenti antichi parlano infatti di un tesoro nella chiesa di San Mamiliano a Montecristo: nella seconda metà del Cinquecento il principe di Piombino e il Granduca di Toscana vi sconsigliavano di fare ricerche per la presenza di pirati, mentre una spedizione dalla Corsica scovò "ossa bruciate e piccoli vasi neri". Non appare quindi come un caso che un tesoro si trovasse effettivamente nella chiesa di San Mamiliano ma a Sovana, dove si trovano le reliquie del santo e vescovo di Palermo, morto nel 460.
La chiesa si presenta con una ampia navata unica e con una insolita doppia area absidale che rappresenta la parte più antica del periodo paleocristiano; in passato, doveva essere quasi certamente presente una cripta, tipica degli edifici religiosi risalenti a quell'epoca, che poteva trovarsi nell'area sottostante alle due absidi.
Rimasta suggestivamente priva del tetto di copertura come la celebre abbazia di San Galgano, è delimitata da pareti costituite da blocchi di tufo, il cui basamento presenta in alcuni punti strutture etrusco-romane.
La struttura architettonica presenta anche numerosi elementi stilistici romanici, introdotti con i lavori di ampliamento e ristrutturazione avvenuti in più fasi fino al Duecento.
Oggi la chiesa, assieme al Palazzo Pretorio, è sede del Polo Museale di Sovana.
Testo derivato da Wikipedia - Chiesa di San Mamiliano (Sovana)
Fotografia di Matteo Vinattieri, CC BY 3.0, [1] .
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Situato nella piazza principale, tra l'antica chiesa di San Mamiliano e la chiesa di Santa Maria Maggiore, venne edificato nella seconda metà del Cinquecento: le opere di realizzazione sono attribuite all'architetto Vignola.
Il palazzo ha una struttura leggera ed austera e si caratterizza per il pregevole androne, col soffitto costituito da volte a crociera, dove un portale cinquecentesco in legno conduce al giardino.
L'importante scalinata conduce ad un altro portone, attraverso il quale si accede al salone nobiliare, dove spiccano le cinque finestre a sezione aurea che si affacciano, da un lato sulla piazza di Sovana e dall'altro verso la campagna circostante.
Il complesso fu la dimora di un vescovo della famiglia Bourbon, che lo utilizzava per le pubbliche relazioni. In seguito, il palazzo ebbe diverse destinazioni nel corso dei secoli, da sede degli uffici pubblici a scuola comunale. Tutto ciò ha comportato una divisione ed un frazionamento dell'originaria struttura signorile.
Dopo un parziale crollo avvenuto negli anni sessanta del Novecento, il palazzo fu acquistato dal professor Luciano Ventura e, nel 1968, ebbe inizio un accurato restauro conservativo, durato oltre quindici anni, che ha permesso di riportare il fabbricato agli antichi splendori del periodo rinascimentale. Dal 2009, nel mese d'agosto ,la proprietà mette a disposizione dell'Associazione Culturale "I Sogni in Teatro", il giardino ed il salone principale per la rassegna di Teatro, Musica e Cinema "Sovana in Arte".
Testo derivato da Wikipedia - Palazzo Bourbon del Monte (Sovana)
Fotografia [1] di www.fototoscana.it.
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La chiesa di Santa Maria Maggiore di Sovana risale al XII-XIII secolo. Nel corso dei secoli ha subito varie ristrutturazioni nonchè i saccheggi dei Senesi nel 1410 e dei Pitiglianesi nel 1434. La facciata e l'ingresso originario furono perduti nella seconda metà del Cinquecento, quando alla chiesa venne addossato il palazzo Bourbon Del Monte.
La chiesa, cui si accede da un portale aperto sul fianco destro, presenta caratteri di transizione tra romanico e gotico.
L'interno ha sviluppo a tre navate, separate da pilastri poligonali che sostengono delle spaziose arcate.
Al posto dell'altare maggiore è situato un raro ciborio preromanico dell'ottavo secolo, unico in tutta la Toscana: è il più celebre e prezioso pezzo di questa chiesa, impregnata di una raccolta atmosfera di primitiva sacralità.
Il ciborio, in marmo bianco, è costituito da quattro colonne con capitelli a foggia corinzia, sorreggenti una cupola conica ottagonale. Gli archi ribassati che poggiano sulle colonne sono decorati ad intaglio con motivi geometrici, floreali e faunistici (viti, pàtere, colombi, spirali), in uno stilre rifinito ed elegante.
Si suppone che il ciborio sia stato portato in questa chiesa in seguito ai lavori di restauro del Duomo di Sovana, dove risiedeva sino al XI-XII secolo.
Una serie di pregevoli affreschi impreziosiscono l'interno del tempio. Nella piccola cappella di fronte all'ingresso si trovano alcuni affreschi del Quattrocento, di scuola senese: sulla volta è raffigurato il Signore che benedice, con i quattro evangelisti ai quattro angoli; sulla parete di destra sono raffigurati tre santi, mentre sulla superficie esterna dell'arco d'ingresso della cappella vi sono due affreschi ispirati alla vita della Madonna.
Nella nicchia, a destra dell'ingresso principale, si trova un affresco attribuito alla scuola di Andrea di Niccolò, pittore senese del primo rinascimento: la Madonna col Bambino, tra S. Barbara e S. Lucia, è datata al 1508. Ai lati della nicchia si riconoscono S. Sebastiano e S. Mamiliano.
Nell'altra nicchia, a sinistra dell'ingresso, è raffigurata una crocifissione, con S. Antonio e S. Lorenzo ai lati del Cristo. Nella parete laterale della nicchia sono dipinti A. Sebastiano e S. Rocco.
In un grande affresco parietale, sulla parete di fondo, è rappresentata una crocifissione con S. Maria e S. Giovanni e, alla due estremità, S. Gregorio e S. Antonio.
Alcuni cippi romani, del periodo tardo-repubblicano, con iscrizioni a carattere funerario, sono collocati ad una estremità della chiesa.
Testo tratto dal libro "Le Città del Tufo della Valle del Fiora", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2016.
Le immagini si riferiscono a beni di proprietà della Diocesi di Pitigliano Sovana Orbetello e sono qui pubblicate su autorizzazione concessa dal relativo Ufficio Beni Culturali.
Fotografie di Mauro Sclano [1], Sailko - Opera Propria, CC BY 3.0, [2] , Progetto Heba [3,4,6] e di Zyance - Opera propria, CC BY-SA 3.0, [5] e [7]
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Il Palazzo Comunale di Sovana, noto anche come Palazzo dell'Archivio, si trova al centro del lato occidentale di Piazza Pretorio, tra la via di Mezzo e la via di Sotto.
Il Palazzo fu costruito nel XII secolo per ospitare la sede comunale di Sovana, che proprio in quel periodo conosceva una forte espansione dopo i fasti di epoca etrusca.
L'originaria struttura di epoca medievale rimase intatta fino al 1433, anno in cui Sovana fu assediata per rappresaglia dalle truppe della Contea di Pitigliano, a seguito dell'uccisione del conte Gentile Orsini: i gravi danneggiamenti subiti dalla struttura resero necessario un profondo intervento di ristrutturazione. Nel 1588 fu realizzato l'orologio e, in epoca seicentesca, fu aggiunto il campanile a vela: proprio durante il Seicento il palazzo iniziò ad ospitare l'archivio di Sovana, ragione per la quale è noto anche con questa denominazione.
Tra la seconda metà dell'Ottocento e i primi del Novecento l'edificio conobbe un lungo periodo di degrado; una serie di recenti restauri hanno permesso di riportarlo all'antico splendore, recuperando pienamente anche le parti che versavano in pessime condizioni.
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La Loggia del Capitano, è una storica loggia situata nel centro di Sovana. La sua ubicazione è sul lato settentrionale di Piazza del Pretorio, quasi addossata al lato occidentale del Palazzo Pretorio, da cui è divisa da un piccolo corpo di fabbrica, pur potendo esserne considerata parte integrante dal punto di vista delle funzioni storiche svolte.
La struttura fu costruita in epoca medievale e completamente ristrutturata durante il Quattrocento assieme all'attiguo Palazzo Pretorio.
La loggia presenta due aperture ad arco, dalle quali si accede al portico disposto ad L. Sul lato lungo meridionale, l'arcata e la corrispondente apertura si presentano più ampie rispetto all'arco e al sottostante passaggio che si aprono sul lato corto orientale, perpendicolare alla facciata del Palazzo Pretorio. Proprio sul piano rialzato del lato corto è collocato un grande stemma mediceo, che fu fatto aggiungere nel 1570 da Cosimo I dé Medici.
Le strutture murarie sono esternamente rivestite in blocchi di tufo; al piano rialzato della struttura architettonica si apre una finestra quadrangolare sul lato lungo meridionale, mentre su quello corto orientale è visibile una finestra tamponata della medesima forma, poco a destra rispetto allo stemma mediceo.
Testo derivato da Wikipedia - Loggia del Capitano
Fotografie di Matteo Vinattieri - Opera propria, CC BY 3.0, [1] e Luca Bececco [2].
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Il Palazzo Pretorio di Sovana si trova sul lato settentrionale della piazza omonima.
Il palazzo fu costruito in epoca medievale, quasi certamente tra la fine del XII secolo e gli inizi del Duecento: la sua esistenza è provata in un documento risalente al 1208.
L'edificio conservò intatta la propria struttura originaria con finestre ad arco fino agli inizi del Quattrocento, quando risultava gravemente danneggiato a seguito dell'assedio portato dalle truppe senesi; la successiva ristrutturazione effettuata tra il 1413 e il 1414 comportò la modifica delle parti che erano state distrutte in modo irrecuperabile.
Con l'ingresso di Sovana nel Granducato di Toscana avvenuto nel 1555, il palazzo cambiò l'uso a cui era destinato precedentemente, divenendo anche la sede del carcere in epoca seicentesca.
Nel tardo Settecento il complesso fu dismesso e ceduto dai Lorena alla diocesi locale, venendo restaurato nel corso dei decenni successivi.
Durante il secolo scorso era divenuto sede di un magazzino, prima di essere nuovamente restaurato e adibito a sede museale.
L’edificio si articola su due livelli ed è interamente realizzato in conci di tufo; sulla facciata si possono ammirare ben 9 stemmi riconducibili ai capitani del popolo e ai commissari che amministrarono il borgo.
Sullo sperone angolare che fortifica l'edificio è posta una tozza colonna, ritenuta il sito dove venivano affissi i bandi pubblici.
Oggi il palazzo ospita al piano terreno il Centro Visite Parco Archeologico del Tufo ed il Centro di Documentazione del Territorio Sovanese mentre il primo piano fa parte, con San Mamiliano, del Polo Museale di Sovana.
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Il doppio museo di San Mamiliano e di Palazzo Pretorio
Musei minuscoli. Una sola, straordinaria stanza per ciascuno. Pochi, pochissimi oggetti. Ma reperti di grande bellezza e con una storia eccezionale alle spalle. La chiesa di San Mamiliano e la sala delle udienze di palazzo Pretorio
sono state trasformate in musei che, attraverso la piazza di Sovana, si guardano lun con laltro.
Gli archeologi sono stati pignoli come contabili: sono 498 le monete doro zecchino, i solidi del Medioevo più antico, ritrovati, in un giorno di novembre del 2004, sotto il pavimento della chiesa di San Mamiliano. Un autentico
tesoro.
Questa storia va raccontata: generazioni di contadini sovanesi, per secoli, hanno sognato e cercato una perduta pentola d’oro. Si sapeva che gli antichi abitanti della città, nei tempi bui del V secolo, avevano nascosto un piccolo
tesoro per sottrarlo a banditi e razziatori. Non era mai stato ritrovato. Se ne era perso memoria. Fiorivano leggende su leggende. I vecchi raccontavano delle loro vane ricerche ai nipoti.
Naturalmente questo tesoro era sotto gli occhi di tutti.
Agli inizi del 2000, l’antica chiesa di San Mamiliano era un rudere. Il tetto era crollato, erano state portate via tegole e mattoni. Fino al 1960, qui razzolavano le galline della famiglia Busatti. Era un pollaio, la più antica basilica di Sovana. Nel 2004, finalmente, si trovarono i denari necessari a restaurarla. Le vanghe degli operai non faticarono poi molto a trovare, sotto il pavimento sbriciolato della chiesa, i sarcofaghi di un cimitero dimenticato, le rovine di un edificio termale romano e, in un angolo, una solitaria olla di terracotta alta dodici centimetri. Dentro luccicavano ancora i solidi, il tesoro di Sovana. Due chili e duecento grammi di oro trasformati in monete nelle zecche di Costantinopoli, Ravenna, Milano, Roma, Arles e Salonicco.
Oggi, i solidi sono tornati nel loro antico nascondiglio e San Mamiliano protegge nuovamente il prezioso tesoro dei sovanesi.
Qui si possono osservare anche gli oggetti rinvenuti nella stipe votiva ritrovata allingresso della via cava detta il Cavone: una ventina di reperti in ceramica che raffigurano parti del corpo umano, fantocci maschili e femminili, uteri
di coccio. Gli Etruschi chiedevano alle divinità del tufo grazia per le loro malattie.
L’attenzione però di chi entra in questa sala è attratta da due piccole statue. Un uomo e una donna. Belli, nudi e sensuali. Con le mani legate dietro la schiena. Sono stati modellati in piombo, metallo sacro alle divinità dei morti. Archeologi ed epigrafisti sono sempre stati incuriositi da queste due statuette rinvenute, nel 1908, da un contadino in una tomba della necropoli sovanese. È una strana storia. Forse una storia maledetta. O una storia di tragica malinconia: Romeo e Giulietta degli anni etruschi. Gli archeologi hanno datato al III secolo avanti Cristo le due statue. La tomba era del VI secolo avanti Cristo. Qualcuno si era, dunque, introdotto in un sepolcro antico di tre secoli e vi aveva depositato le due figure in piombo. Era una maledizione? Un malocchio? La condanna spietata di un amore proibito? Gli archeologi abbandonano le regole dell’accademia e sono sicuri che così sia stato. Una storia ancora da raccontare. Sappiamo, da un’incisione, i nomi dell’uomo e della donna: erano Zertur e Velia. Qualcuno un giorno ne scriverà la storia.
Sul lato opposto della piazzetta, entriamo nella sala delle Udienze di palazzo Pretorio. Piano terra. Vi è il centro informazioni del Parco delle Città del Tufo. In un angolo della sala vi è la ricostruzione del frontone del tempio della tomba Ildebranda.
Al piano superiore due vetrine mettono in mostra un corredo da simposio, il banchetto etrusco, costituito da vasi, piatti e calici in bronzo dalle tonalità verdastre rinvenuti nel 1974 durante i lavori di scavo e pulizia del podio della tomba Ildebranda. I materiali furono recuperati all’interno di una piccola camera sotterranea, ancora oggi visibile e sempre sfuggita ai tombaroli, posta sul lato sinistro del dromos che conduce al sepolcro dal soffitto a cassettoni.
§ MUSEI DI MAREMMA - Polo Museale di Sovana . Museo di San Mamiliano
Testi e immagini tratti su concessione dal libro: Musei di Maremma - Il grande Museo di Sorano, Andrea Semplici, Edizioni Effigi, 2016 e da La Maremma dei Musei, Andrea Semplici, Edizioni Effigi, 2012.
Fotografie da Archivio Effigi.
Le immagini si riferiscono a beni culturali conservati presso la rete museale Musei di Maremma e sono qui pubblicate su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali - Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo.Il testo di questa scheda è coperto da Copyright e ne è quindi vietata la copia, la riproduzione anche parziale o l'utilizzo con qualsiasi mezzo.
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La rocca fu costruita dagli Aldobrandeschi intorno all'anno mille sopra preesistenti strutture di epoca etrusca e fu sede della famiglia Aldobrandeschi fino alla fine del Duecento, quando Sovana entrò a far parte della Contea degli Orsini di Pitigliano.
Da quel momento la rocca visse un periodo di declino e rimase abbandonata fino agli inizi del Quattrocento quando Sovana fu conquistata dai Senesi. La rocca venne restaurata.
Nella seconda metà del Cinquecento, Sovana e la sua rocca entrarono a far parte del Granducato di Toscana. Cosimo I de' Medici fece eseguire alcuni lavori di ristrutturazione che, tuttavia, non impedirono il successivo abbandono e il conseguente degrado della struttura.
La Rocca aldobrandesca di Sovana è situata poco fuori la parte orientale del centro storico, poggiando con il lato esterno su un piccolo sperone di tufo che livella la superficie di base.
Attualmente, si presenta sotto forma di imponenti ruderi, rivestiti in tufo e conservati in discrete condizioni. L'accesso avviene attraverso una porta ad arco tondo che si apre sul lato rivolto verso il centro storico.
Le cortine murarie poggiano su alcuni tratti delle primitive "Mura di Sovana" etrusche e presentano, in alcuni punti, coronamenti sommitali con archetti ciechi poggianti su mensole; anche la torre, che si conserva soltanto su due lati, presenta un coronamento sommitale molto simile, con mensole che risultano però molto più sporgenti, lasciando immaginare la presenza di una merlatura in epoche passate.
Testo derivato da Wikipedia - Rocca aldobrandesca.
Fotografie di Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, [2] e Progetto Heba [1,3,4,5] .
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Il sistema difensivo del borgo di Sovana si è sviluppato in tre epoche diverse: etrusca. medievale e rinascimentale.
Le mura etrusche forono costruite in punti distinti a partire dal VII secolo avanti Cristo. Un primo tratto fu realizzato per proteggere la necropoli nei punti non protetti dalle ripide pareti rocciose e proseguiva fino al poggio sul quale venne costruito il duomo. Un secondo tratto di mura, distinto dal precedente, è ravvisabile nell'area della Rocca aldobrandesca, sul lato opposto dell'abitato.
Le mura medievali, in parte sovrastanti alle preesistenti strutture etrusche, furono realizzate dagli Aldobrandeschi tra l'XI e il XII secolo. Le mura aldobrandesche, in conci di tufo, andarono a racchiudere interamente il borgo medievale, adattandosi all'orografia del pianoro di Sovana.
Sul lato orientale la struttura difensiva venne ulteriormente rafforzata con la costruzione dell'imponente Rocca aldobrandesca, sul lato interno della quale venne aperta una porta di collegamento al resto dell'abitato.
Le mura rinascimentali sono il frutto dei lavori di ristrutturazione ed ampliamento effettuati in più fasi dai Senesi tra il Quattrocento e i primi decenni del secolo successivo e dai Medici, nel tardo Cinquecento, per ordine di Cosimo I che, contemporaneamente, ordinò anche la ristrutturazione delle mura di Grosseto e il miglioramento di varie fortificazioni della Maremma.
Gli interventi cinquecenteschi hanno conferito alle mura di Sovana gran parte dell'aspetto attuale; sono state perdute solo alcune porte di accesso.
Testo derivato da Wikipedia - Mura di Sovana.
Fotografie di viaggidiraffaella.it [1] e di Walter Fioramonti [2].
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Presso il parcheggio dietro la piazza del Pretorio si trovano i resti del convento di San Benedetto (XII sec.), un tempo chiesa di una certa importanza che, secondo alcuni studiosi, sarebbe appartenuta all'Ordine del Tempio.
La presenza dei cavalieri Templari in Sovana è attestata da un documento originale dell'epoca, dove si fa riferimento ad una locale comanderia templare, la cui localizzazione è però ancora incerta.
Testo tratto dal libro "Le Città del Tufo della Valle del Fiora", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2016.
Fotografia di Walter Fioramonti [1].
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La cattedrale di San Pietro e Paolo si erge sul lembo sud-occidentale dello sperone tufaceo che ospita Sovana e si affaccia sulla vallata della necropoli etrusca, dominandola con la propria altera mole. Nonostante l’aspetto attuale risulti essere il frutto di restauri e rifacimenti subiti nell’arco dei secoli, a prevalere è lo stile romanico.
Come gran parte degli edifici locali è quasi completamente costruita in tufo, la cui monotonia cromatica è talvolta interrotta dal bianco del travertino, utilizzato soprattutto per gli elementi decorativi.
Inaccessibile è la facciata, alla quale, nella seconda metà del XII secolo, sono stati addossati il palazzetto vescovile e l’attiguo campanile a pianta quadrangolare.
L’accesso principale è quindi collocato sul fianco settentrionale ed è costituito da un portale lunettato realizzato con lastre di travertino decorate con bassorilievi, in parte di spoglio, eterogenei sia per stile che per soggetti rappresentati. Qui si alternano raffigurazioni antropomorfe, alcune delle quali cariche di significati simbolici, come nel caso della lastra con la sirena bicaudata o di quella con un cavaliere in armi degli stipiti esterni o ancora del concio dell’arcata superiore con la raffigurazione di un orante, e altre con motivi fitogeometrici e zoomorfi.
Il fianco su cui si apre il portale si presenta contraffortato, e tra un rinforzo e l’altro si aprono delle piccole monofore strombate inquadrate da esili colonnine bianche con capitelli corinzieggianti, fonti di luce per la navata laterale sinistra.
Il prospetto esterno dell’abside è scandito da sottili lesene, anch’esse in travertino, con capitelli di un tipo ispirato al composito, che si alternano a mensole dello stesso materiale
L’interno presenta il tradizionale impianto basilicale a tre navate, la centrale larga circa il doppio delle laterali, separate dall’abside da un transetto mononave non sporgente rispetto al corpo longitudinale, cioè uno pseudo-transetto. Diversi sono i sistemi adottati per la copertura dei vari spazi. L’intero corpo longitudinale è coperto da un sistema di volte a crociera costolonate, che si impostano su pilastri cruciformi a pianta polilobata. I bracci del transetto sono invece voltati a botte. Oltrepassandolo, si accede alla zona presbiteriale sopraelevata sulla cripta e coperta da una cupola emisferica su pennacchi, racchiusa da un tiburio esternamente ottagonale.
La piccola cripta sottostante, presenta invece una copertura a volte a crociera prive di costoloni impostate su tozze colonne monolitiche con capitelli scantonati e aniconici. All’interno della cripta è conservata l’urna con le reliquie di San Mamiliano, che la leggenda identifica come l’iniziatore del processo di cristianizzazione del centro maremmano, e che è oggi patrono del paese.
Come i sistemi di copertura anche l’apparato scultoreo della cattedrale appare eterogeneo, sebbene la visione d’insieme risulti armonica e coerente.
Notevole è la varietà formale ed iconografica esibita dai capitelli. Il materiale utilizzato per queste sculture architettoniche è il travertino, eccezion fatta per due capitelli: il primo della navata sinistra e quello istoriato immediatamente successivo. Quest’ultimo mantiene tale unicità anche per quanto riguarda il programma decorativo, per la monocromia del fusto a differenza degli altri che invece presentano una zebratura ottenuta dall’alternarsi di conci in tufo e travertino, e infine per avere colonnette angolari anziché spigoli incassati. Convivono con questo particolare pilastro a fascio dai capitelli istoriati altri a decorazione zoomorfa, fitomorfa, geometrica, scantonati e aniconici, questi ultimi soprattutto nella cripta.
Storia
La storia del vescovado e del Duomo di Sovana è un cruciverba irrisolto.
In effetti, a causa dell'incendio che nel XVI secolo distrusse l'archivio diocesano, mancano le fonti documentarie per ricostruire la storia sia dei primi secoli di vita della diocesi che delle vicende costruttive della cattedrale.
I primi secoli della Diocesi di Sovana
Nonostante la leggenda voglia che l’evangelizzazione di Sovana sia da far risalire al IV secolo ad opera del vescovo palermitano Mamiliano non si hanno notizie certe della presenza di una chiesa matrice a Sovana prima del VII secolo.
Risale infatti al 680 la sottoscrizione agli atti del terzo concilio di Costantinopoli di un «Mauritius episcopus suanensis».
Inoltre esiste un secondo documento, molto successivo, del 1193 nel quale si asserisce che la prima sede della circoscrizione diocesana, i cui confini sarebbero stati fissati da papa Giovanni I, in carica tra 523 e 526, sarebbe stata Acquapendente, "ubi prima fuit sedes soanensis episcopatus".
Da queste due fonti, le sole giunte fino a noi, è plausibile dedurre che nel corso del VII secolo, e in particolar modo probabilmente durante il regno del re longobardo Rotari ( 636 al 652), Sovana avrebbe visto incrementare il proprio ruolo territoriale e sarebbe stata eletta a sede vescovile, ivi trasferita dalla vicina Acquapendente. E quindi a partire dal VII secolo viene attestata l’esistenza di una cattedrale a Sovana.
Ma sulla sua identificazione la storiografia è discordante.
Alcuni storici, come Alfonso Ademollo alla fine dell'Ottocento, hanno interpretato l'attuale cattedrale come frutto di successivi rifacimenti e modificazioni impostati a partire dal pontificato di Gregorio VII sull'originaria costruzione del VII secolo.
Questa tesi è stata però superata dalla critica novecentesca, gran parte della quale, a partire da Mario Salmi, è concorde nell'affermare l'esistenza di due edifici distinti ubicati in zone diverse di Sovana: la cattedrale altomedievale dedicata a San Mamiliano nella piazzetta centrale, della quale non rimangono che resti reintegrati all’interno dell’edificio ristrutturato, e quella attuale dedicata ai Santi Pietro e Paolo appena fuori dal paese, la cui fondazione è da considerare non antecedente al X secolo.
Storia della Cattedrale di San Pietro e Paolo
Per la collocazione storica della fondazione e la ricostruzione delle vicende costruttive sono disponibili solamente una bolla papale e due epigrafi presenti in loco in parte di difficile interpretazione. E' quindi comprensibile il proliferare di tesi diverse da parte degli storici che se ne sono occupati.
Nella bolla di papa Niccolò II del 1061, indirizzata al preposto Vitale, viene ricordato che il vescovo sovanese Ranieri, in carica attorno alla metà del X secolo (dal 963 al 967), aveva fondato la canonica (o il capitolo dei canonici) di San Pietro in Sovana.
Il secondo importante documento pervenutoci è la lapide del XII secolo conservata sulla lunetta del portale d’ingresso della cattedrale, in cui si legge che Pietro, vescovo senese di Sovana, aveva fatto costruire quel portale: «Natus in Urbe Sena/ set presul factus in ista/ Petrus ut he ianue/ sic fierent studuit». La critica è oggi concorde nell’ identificare il citato Petrus con il vescovo scismatico Pietro che presiedette alla cattedra episcopale sovanese dal 1153 al 1175.
Il secondo documento epigrafico da considerare è quello apposto sul muro di rinforzo appoggiato alla parete esterna sinistra del transetto, datato 1248, la lettura del cui testo ha, tuttavia, presentato notevoli problematiche e suscitato numerose diverse interpretazioni.
Dall'interpretazione di questri tre documenti e con l'ausilio dell'analisi dell'architettura e degli apparati scultorei della cattedrale gli storici hanno formulato le loro tesi circa le fasi costruttive che se pur discordanti presentano con qualche approssimazione un minimo comun denominatore che riportiamo di seguito.
La costruzione della cattedrale di Sovana si è sviluppata in tre fasi tra la secoda metà dell’ XI e la prima metà del XIII secolo.
Prima fase - seconda metà dell' XI secolo: I lavori vengono iniziati da Gregorio VII il cui pontificato durò dal 1073 al 1085. La nuova cattedrale viene edificata sopra la preesistente cripta, che alcuni fanno risalire alla seconda metà del X secolo mentre altri la collocano nella prima metà del secolo XI. La prima porzione dell'edificio ad essere realizzata sarebbe quella comprendente la cripta, il sovrastante presbiterio e le rispettive coperture, compresa la cupola emisferica. I lavori si interrompono con la morte di papa Gregorio VII per diverse decine di anni.
Seconda fase - seconda metà del XII secolo: La parte più consistente della cattedrale e della decorazione interna vengono realizzate durante la seconda metà del XII secolo, in particolare durante l'episcopato del vescovo scismatico Pietro. In questa fase, a seguito della costruzione del palazzo vescovile e della torre campanaria addossati alla facciata occidentale, il portale originale d'ingresso viene spostato sul fianco settentrionale dell'edificio.
Terza fase - inizio del XIII secolo: In questi anni vengono costruite le volte a crociera costolonate della navata centrale in sostituzione della copertura originale a capriate.
Le forti spinte delle volte della navata centrale, non previste in origine, ben presto provocarono dei cedimenti ai muri laterali che richiesero degli interventi di consolidamento con la costruzione dei barbacani addossati alle pareti laterali, così come robusti sottarchi erano già stati realizzati a rinforzo degli archi che sostengono la cupola ed il tiburio. L'epigrafe del 1248 secondo alcuni è da riferire a questi lavori di consolidamento eseguiti appunto nella prima metà del Duecento.
Nei secoli successivi il Duomo di Sovana è stato oggetto di numerosi interventi ma, grazie alla povertà delle diocesi, non è mai stato oggetto di cambiamenti significativi ed è giunto a noi praticamente mantenedo l'aspetto che aveva nel Duecento.
Sfortunatamente questa non è la storia di tante chiese nè del paesaggio, una volta incontaminato, della Maremma.
dal Giunco del 11 maggio 2017
Un particolare del Duomo di Sovana è sicuramente rappresentato dal suo orientamento astronomico: il 21 giugno di ogni anno il primo raggio del sole mattutino colpisce la monofora absidale ed attraversando tutta la navata si proietta sulla parete opposta dove è collocata una finta monofora; lo stesso fenomeno si ripete anche nella cripta sottostante. Ciò potrebbe significare che l’orientamento dell’edificio (allineato al solstizio estivo) non risponde alle regole medioevali che volevano l’abside esposto ad est (equinozio); seguirebbe più propriamente invece i canoni delle culture nordiche (celtico-germaniche e/o longobarde).
Testi e immagini tratti su concessione dal libro: Messaggi scolpiti nel tufo - Il Duomo di Sovana e il programma iconografico della decorazione scultorea, Martina Giulietti, Edizioni Effigi, 2014.
Fotografie di Andrea Mearelli.
Le immagini si riferiscono a beni di proprietà della Diocesi di Pitigliano Sovana Orbetello e sono qui pubblicate su autorizzazione concessa dal relativo Ufficio Beni Culturali.
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L'area etrusca intorno a Sovana ha una sua speciale importanza, rispetto ad altri centri dell'antica Etruria, poiché qui è possibile ritrovare, riunite in un unico contesto ambientale, le maggiori tipologie della architettura rupestre tirrenica.
A parte le tombe a tumulo, proprie di Cerveteri, Vulci e Vetulonia, delle quali non vi è traccia, gli altri tipi di sepolcri sono qui tutti ben rappresentati: tombe a camera, a dado, a semidado, a edicola, a fossa, comprese le rarissime e celebri tombe a tempio di cui, a parte queste di Sovana, è segnalata solo un'altra, quasi del tutto in rovina, a Norchia.
Nelle forre vulcaniche del territorio sovanese il tufo fu tagliato, scalpellato e rifinito sin dai primi stanziamenti etruschi (VIII sec. a.C.), e questa attività scultorea continuò per tutto l'arco della storia etrusca (10 secoli circa), sino e oltre la romanizzazione.
Sovana è uno dei maggiori centri rupestri etruschi, caratterizzato proprio dalla qualità e dalla quantità di grandi opere ricavate nella viva roccia, senza l'uso di muratura, di malta o di mattoni.
Tombe, vie cave, arcaiche aree sacre rupestri, cunicoli, pozzi, opere di idraulica, grandi superfici rocciose tagliate e scalpellate: questo è il prezioso ed originale patrimonio rupestre di Sovana.
Grazie a questi tratti, localmente si è data la definizione di città e civiltà del tufo, per rimarcare il principale e peculiare segno e materiale di questa parte della Maremma collinare.
Le antichità etrusche sono situate negli immediati dintorni del paese, lungo tre valli ed i rispettivi corsi d'acqua: Folonia, Calesine e Picciolana.
Testo tratto dal libro "Le Città del Tufo della Valle del Fiora", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2016.
Fotografia di Sidvics - Opera propria, CC BY-SA 3.0, [1].
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Il Primo Settore della Necropoli di Sovana si trova sulle colline a nord del torrente Calesine, a nord-ovest dell'abitato di Sovana. Dei due settori il Primo è il più imponente; si estende per circa un chilometro e mezzo ed è caratterizzato da una grande quantità e varietà di tipologie di tombe (a dado, a semidado, a edicola, a tempio, ecc). Nella necropoli del primo settore, percorsa dal Cavone, si trovano alcune delle più famose tombe etrusche della regione dei tufi: tomba Pola e tomba dei Demoni alati a Poggio Prisca, la tomba Ildebranda a Poggio Felceto e la tomba del Tifone a Poggio Stanziale.
La necropoli è facilmente raggiungibile dalla strada provinciale che collega Sovana a San Martino sul Fiora.
Parco Archeologico Città del Tufo - I Settore della Necropoli di Sovana
Parco Archeologico Città del Tufo - Istruzioni per la visita del I Settore
Fotografia [1] Archivio Effigi.
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La tomba Pola, databile al IV-III secolo avanti Cristo, sorge sul costone di Poggio Prisca, a circa 300 metri dalla tomba Ildebranda in direzione di San Martino sul Fiora.
Si tratta di una tomba monumentale, interamente scavata nel tufo, che originariamente riproduceva il fronte di un tempio posto su un alto podio e caratterizato da otto colonne rastremate con capitelli decorati con foglie e teste antropomorfe.
Purtroppo la struttura ha subito nei secoli un forte degrado ed è sopravvissuta una sola colonna, che la Sprintendenza ai Beni Archeologici della Toscana ha protetto nel 2005 con una fasciatura ed un sostegno.
Sotto il fronte del tempio un corridoio o dromos lungo circa 15 conduce alla ampia camera sepolcrale, con pianta a croce e una banchina lungo le pareti per la collocazione dei sarcofagi.
Anche questa tomba "a tempio", come l'Ildebranda, era interamente intonacata e dipinta con colori sgargianti (rosso, giallo, oro, verde...).
Testo derivato dal libro: Musei di Maremma - Il grande Museo di Sorano, Andrea Semplici, Edizioni Effigi, 2016.
Fotografie di Mario Papalini [1,2].
Disegni [3,4] dal libro "Gli Etruschi - mille anni di civiltà", Giovannangelo Camporeale e Gabriele Morolli, Casa Editrice Bonechi, 1990.
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La Tomba dei Demoni Alati, il cui frontone era crollato a valle secoli addietro e ricoperto di terra, è stata scoperta per caso in seguito a una frana a cinquanta metri a ovest della tomba Ildebranda ed è stata recuperata durante la campagna di scavi effettuata tra il 2004 e il 2005 dalla Soprintendenza ai Beni archeologici della Toscana in collaborazione con il Dipartimento di Scienze dell'Antichità dell'Università Cà Foscari di Venezia. La tomba conserva un eccezzionale apparato decorativo scultoreo.
Si tratta di una tomba bellissima e costituisce l’esempio più significativo di tomba ad edicola con figura di recumbente, oggi conosciuta. Il confronto più stringente è rappresentato dalla Tomba della Sirena nella vicina necropoli di Sopraripa.
Il defunto è rappesentato mentre mollemente è disteso su un fianco e con la mano destra sorregge una patera. La sua tunica conserva ancora tracce del colore. La tomba è sorvegliata da un bellissimo leone con i muscoli tesi, pronto al balzo contro i profanatori.
Anche in questo caso, come per la Tomba della Sirena, è controversa la datazione ( III secolo a.C. quella ufficiale, IV secolo secondo altri) e l'identificazione della figura che campeggia nel frontone e di quelle che sorvegliano la tomba ai lati della nicchia centrale. Scilla e demoni alati nell'attribuzione ufficiale; la sirena bicaudata, che rimanda alla dea etrusca delle acque Voltumna (detta anche Norzia) e le Lase (ninfe alate protettrici) secondo altri studiosi.
Testi derivati da Musei di Maremma - Il grande Museo di Sorano, Andrea Semplici, Edizioni Effigi, 2016 e altri.
Fotografie di Archivo Effigi.
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La tomba Ildebranda è la più celebre della regione dei tufi.
La tomba si trova, nel Primo Settore della Necropoli di Sovana, all'estremità nord-occidentale di Poggio Felceto, al termine del Cavone, in una zona frequentata fin dalla prima età dei metalli e dove si trovano molte altre tombe datate dall'VIII fino al III secolo avanti Cristo.
Sulla datazione della tomba Ildebranda non vi è unanimità: mentre le fonti ufficiali la collocano al III-II secolo avanti Cristo, in pieno periodo ellenistico, diversi strudiosi ritengono più corretta una datazione al IV secolo, se non addirittura al V. [dire perchè]
Fu l'archeologo Gino Rosi a riportarla alla luce nel 1924 ( chiarire come era prima) e a dirigere i primi scavi. Fu lui a decidere di dedicarla a Ildebrando da Soana, papa Gregorio VII. Non esiste dunque, come sempre abbiamo immaginato, la bella principessa etrusca Ildebranda. Peccato.
Nel 1929 l'archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli dedicò al monumento uno studio monografico e ne realizzò la ricostruzione grafica ancora oggi fondamentale per comprenderne l'architettura e la grandiosità.
La tomba, interamnete scavata nel tufo, è composta da due parti ben distinte: la Camera Sepolcrale e il Monumento Funebre.
Il Monumento Funebre era un tempio posizionato su un alto podio, intagliato su tre lati nel macigno del tufo, accessibile da due scalinate laterali.
La facciata era monumentale. Il frontone doveva essere splendido con grifi, figure femminili e motivi vegetali a rilievo. Dodici colonne scanalate (ne è rimasta una sola) delimitavano il pronao con soffitto a cassettoni. Tutto il monumento era ricoperto da stucchi policromi secondo l'arte decorativa etrusca che amava i colori sgargianti. Purtroppo oggi gran parte di questo grandioso monumento è andata perduta a causa della friabilità del tufo, ma notevole resta il fascino del complesso monumentale.
Un dromos scosceso, lungo una decina di metri, conduceva alla Camera Sepolcrale.
Testi e immagini tratti dal libro "La Maremma dei Musei", autore: Andrea Semplici, anno 2012, Edizioni Effigi.
Fotografie di Guido Cervetti [1], Sidvics - Opera Propria, CC BY 3.0, [2] e www.sovana.it [3].
Disegni [4,5] dal libro "Gli Etruschi - mille anni di civiltà", Giovannangelo Camporeale e Gabriele Morolli, Casa Editrice Bonechi, 1990.
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La tomba del Tifone, risalente al IV secolo avanti Cristo, si trova sull'altura di Poggio Stanziale, nel primo settore della Necropoli di Sovana.
Si tratta di una tomba a edicola con timpano decorato. La figura rappresentata sul timpano fu identificata da George Dennis con il mostro marino Tifone da cui il nome.
Testo derivato dal libro "La Maremma dei Musei", autore: Andrea Semplici, anno 2012, Edizioni Effigi.
Fotografia di Andrea Semplici [1]
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Tutte le immagini, se non diversamente indicato, sono di proprietà dell'autore e coperte da copyright.
Cavone è il nome della via cava più famosa di Sovana. Si tratta di un'opera ciclopica. Il percorso, interamente scavato nel tufo, largo 3-4 metri, alto sui 20 metri e lungo circa mezzo chilometro si snoda sul fianco est di Poggio Prisca all'interno del Primo Settore della Nacropoli di Sovana.
Anche qui, sino alla tarda epoca medioevale, la sacralità del sito fu perpetuata grazie alla presenza di un romitorio rupestre, ricavato in alcune grotte etrusche, sulla parte alta all'inizio della via.
Una nicchia medioevale, con l'effige ormai indefinita della Madonna, è scolpita sulla parete alla base del romitorio, graffiti e incisioni di croci sono rinvenibili in una ripetizione quasi maniacale.
A metà percorso, accanto ad una seconda nicchia cristiana e ad una grande croce incisa, c'è un'iscrizione in caratteri etruschi, affiancata da un'imponente svastica.
L'iscrizione e la svastica rimandano al medesimo simbolismo.
La svastica, simbolo di polarità, centralità e del moto rotatorio attorno ad un centro (e da qui simbolo solare) è in evidente analogia con l'iscrizione dove si legge Vertne, la cui radice Vert rimanda al principale dio etrusco, Veltha (Vertumno), che fu il dio "doppio", dell'essere e del divenire, del cielo e della terra.
Questa iscrizione, l'unica conosciuta in dedica al dio, è spia delle precise valenze spirituali che gli Etruschi associavano alle vie cave.
All'inizio del Cavone di Sovana, in uno spiazzo circolare circondato da tombe e locali rupestri, furono rinvenuti dall'archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli un podio ed i resti di un "tempietto", ai cui piedi erano disseminati centinaia di ex-voto in terracotta, a forma di organi umani. Il luogo, dunque, non solo fu sacro, ma anche reputato fonte di poteri terapeutici.
Testi e immagini tratti su concessione dal libro "Le Vie Cave Etrusche - I ciclopici percorsi sacri di Sovana, Sorano e Pitigliano", Giovanni Feo, Laurum Editrice, Pitigliano, quinta edizione 2016.
Fotografie di autore ignoto [1 e 4], Walter Fioramonti [2] e Guido Cervetti [3].Il testo di questa scheda è coperto da Copyright e ne è quindi vietata la copia, la riproduzione anche parziale o l'utilizzo con qualsiasi mezzo.
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Il bastione di Sopraripa, sponda della valle del fosso Folònia, nasconde una grande necropoli. Fu Samuel James Ainsley, nel 1843, a farsi largo nella boscaglia fino alla tomba che chiamò della Sirena.
Ainsley aveva scoperto il magnifico sepolcro di Nulina vel/velus (vel nulina, figlio di vel). A lui è, infatti, dedicato il sepolcro: è identificabile dall’iscrizione etrusca incisa nella parete di fondo della grande nicchia.
La necropoli di Sopra Ripa è vasta e spettacolare. Lasciata alle spalle l'ex chiesa di San Sebastiano si segue il sentiero che entra nel bosco; dopo alcune decine di metri si biforca: a destra si raggiunge la Via Cava di San Sebastiano, una delle più impressionanti della Maremma; a sinistra si costeggiano le monumentali tombe "a dado" della Necropoli di Sopraripa e, alla fine, si raggiunge la Tomba della Sirena , altro eccelso capolavoro etrusco.
Altro punto di particolare interesse è l’ oratorio rupestre di San Sebastiano che si raggiunge dalla via cava attraverso un breve sentiero in salita che porta al pianoro che sovasta la tagliata dall'alto.
Parco Archeologico Città del Tufo - II Settore della Necropoli di Sovana
Parco Archeologico Città del Tufo - Istruzioni per la visita del II Settore
Testi e immagini tratti su concessione dal libro "Le Vie Cave Etrusche - I ciclopici percorsi sacri di Sovana, Sorano e Pitigliano", Giovanni Feo, Laurum Editrice, Pitigliano, quinta edizione 2016.
Fotografie di Progetto Heba onlus.
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La Chiesa di San Sebastiano di Sovana sorge all'interno del parco archeologico - Necropoli di Sopraripa.
Forse di origini duecentesche, la chiesa venne poi rimaneggiata nel corso dei secoli, fino ad assumere l’attuale aspetto tipico delle chiese rurali maremmane. Dopo un periodo di abbandono e degrado è stata restaurata nel xxxx.
Alcuni storici ipotizano che fosse una pieve collegata al circuito dei Templari che da Sovana giungeva alla Francigena.
Tracce di affreschi ed uno stemma vescovile del XVII secolo sono visibili all'interno.
Alle spalle della chiesa, nel sottobosco, sono segnalate tombe etrusche di età arcaica.
Parco Archeologico Città del Tufo - Chiesa di San Sebastiano
Testo tratto dal libro "Le Città del Tufo della Valle del Fiora", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2016.
Fotografia di Luca Bececco [1].
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La via cava di San Sebastiano si trova nel Secondo Settore della Necropoli di Sovana ed è una fra le più impressionanti della Maremma.
Così la descrive Giovanni Feo:
Nella necropoli di Sopraripa, prima della tomba della Sirena e le numerose tombe "a dado", il sentiero giunge all'ingresso della via cava di San Sebastiano.
Vi è lì una fenditura nella roccia, larga circa tre metri, le cui pareti si alzano perpendicolari oltre i 25 metri. La spettacolare entrata di questa tagliata sovrasta il visitatore con le sue spropositate dimensioni, evocando l'ingresso in un mondo di giganti, le cui megalitiche prospettive sgomentano e sorprendono per la loro eccezzionalità.
Arcaici simboli, incisioni a rilievo e iscrizioni sacre appaiono sulla parte alta delle pareti, ad un'altezza tale che ci vorrebbero scale lunghissime per poter leggere e decifrare quei segni.
A metà percorso, una grande fenditura sulla destra conduce su di un poggio che sovrasta la tagliata dall'alto. Qui, tra i resti di una necropoli di tombe a camera, vi è l'ingresso ad un antro scavato sul bordo del precipizio, che s'affaccia pericolosamente sulla profonda tagliata sottostante. L'antro, composto da tre locali comunicanti, conserva diverse incisioni cristiane di epoca medievale; si tratta infatti del Romitorio di San Sebastiano, un rifugio di eremiti, ricavato da una precedente tomba etrusca.
Ritornando nella via cava e proseguendo oltre questa deviazione laterale, si giunge ad un ampio slargo, rovinato da numerose frane che hanno alterato l'aspetto originario del percorso. E' ancora però ben visibile come, in questo punto, la tagliata si allargasse, per poi restringersi nuovamente e proseguire per un breve tratto, sino a terminare all'aperto, sul prato erboso di un'altura da dove il panorama spazia in direzione del monte Elmo e dell'Amiata.
Parco Archeologico Città del Tufo - Via Cava di San Sebastiano
Testi e immagini tratti su concessione dal libro "Le Vie Cave Etrusche - I ciclopici percorsi sacri di Sovana, Sorano e Pitigliano", Giovanni Feo, Laurum Editrice, Pitigliano, quinta edizione 2016.
Fotografie di Maurizio Di Giovancarlo [1,8,9], Luca Bececco [2,6,7] e Walter Fioramonti [3,4,5]
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La Tomba della Sirena fa parte della necropoli di Sopraripa (II settore della necropoli di Sovana). La tomba, interamente scavata nel tufo, è a ragione consideata come una delle più affascinanti tombe a edicola dell'Etruria.
Al centro della facciata si apre una grossa nicchia arcuata che ospita un kline (letto conviviale) sul quale doveva trovarsi la statua che rappresentava il defunto. La nicchia è fiancheggiata da due personaggi in rilievo raffiguranti una figura maschile e una femminile. Sulla trabeazione, che presenta un fregio di patere e triglifi, si può ammirare uno splendido frontone decorato a rilievo di interpretazione controversa. La camera funeraria, posta fuori asse rispetto all'edicola, è molto piccola e probabilmente ospitava i resti di un solo defunto incinerato: Vel Nulina, come recita l’iscrizione incisa sulla facciata.
La tomba fu scoperta nel giugno del 1843 dal paeseggista e studioso inglese Samuel James Ainsley, che la chiamò "Tomba della Sirena". Di lì a poco fu visitata dal Dennis.
Le principali questioni controverse sulla tomba della Sirena riguardano la datazione e l'interpretazione del frontone.
Circa la datazione le fonti ufficiali collocano la tomba tra la fine del III e l'inizio del II secolo avanti Cristo, ossia nel periodo dell'occupazione romana, mentre altri studiosi l'hanno invece datata al V (G. Rosi) o al IV secolo avanti Cristo.
Circa la scena del frontone l'interpretazione tradizionale e ufficiale vede nel rilievo Scilla, il mostro marino della mitologia greca, che avvolge nelle sue spire due eroti (o amorini).
Una seconda interpretazione vede invece nel frontone la Sirena bicaudata, che rimanda all'etrusca Voltumna, presente anche nel timpano della tomba Ildebranda, in quella dei Demoni Alati e poi anche nel portale del Duomo di Sovana, della Chiesa di San Martino a Magliano in Toscana, ... la cosa non è solo affascinante ma sembra anche avere solide fondamenta. Perciò riportiamo di seguito quanto scritto da Giovanni Feo, su TAGES - Necropoli di Sopraripa e da Raffaella Galli su EVUS - la sirena a due code della necropoli di Sovana.
Sul frontone della tomba “a edicola” è raffigurata una sirena bicaudata che regge la vela di un vascello affondato. Ai due lati, due piccole figure alate. Il naufragio è simbolica allusione al viaggio post-mortem, la sirena è in veste di soccorritrice e guida delle anime partite per il grande viaggio ultraterreno. Nella religione etrusca esisteva una larga famiglia di creature alate - le lase - di natura femminile, considerate benefiche protettrici degli umani, concezione simile a quella degli angeli, delle fate e altre mitiche creature soprannaturali.
da EVUS - la sirena a due code della necropoli di SovanaLa sirena è presente anche nel timpano della tomba ILDEBRANDA e in quella dei DEMONI ALATI, sempre a Sovana.
La sirena che venne vista come una Scilla, un mostro marino, un demone alato, irradia una forza misteriosa che crea un’atmosfera mistica.
Queste sirene, in realtà, richiamano a culture precedenti, a tempi in cui il “femminile” era considerato sacro e le donne garantivano il contatto con la dimensione divina.
Sirene-psicopompo che nel ruolo di LASA accompagnano e proteggono, collegano la realtà umana a quella invisibile.
Essa si fa porta d’accesso agli Inferi per scortare l’anima verso il mondo degli antenati, dei LARES.
E, infatti, le sirene sono poste all’entrata delle famose Vie Cave, per porre sotto la protezione degli Spiriti Familiari degli Antenati.
La sirena è stata accostata ad URCLA/VOLTUMNA, versione etrusca della dea della Terra nelle dodici regioni, emanazione della Madre Universale.
Le sue code serpentine indicano il collegamento con le energie del sottosuolo e la sua natura ctonia.
Il serpente, a cui sembra alludere nella sua doppia coda, nel suo cambiare e rinnovare pelle, è simbolo di trasformazione e di immortalità.
Le antichissime divinità femminili erano spesso associate a dei serpenti, come la dea-madre di Creta.
La coda della nostra sirena, “pisciforme”, ne collega il culto all’acqua, sorgente di vita, attraverso un corpo che si collega all’elemento acquatico.
La sirena bicaudata fu, probabilmente, un potente simbolo, noto in svariate culture dell’Europa antica, immagine archetipica della dea della Terra.
L’Italia è disseminata di queste sirene di varie epoche e di diversi luoghi.
A Sovana, Pienza, Lucca, Bomarzo, Cerveteri, Pavia, in Piemonte e chissà ancora!
Testi tratti da: Musei di Maremma - Il grande Museo di Sorano, Andrea Semplici, Edizioni Effigi, 2016 , da TAGES - Necropoli di Sopraripa e da EVUS - la sirena a due code della necropoli di Sovana .
Fotografie di Luca Bececco [1,2,4,5] e Maggiani [3].
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Tutte le immagini, se non diversamente indicato, sono di proprietà dell'autore e coperte da copyright.
Il Romitorio di San Sebastiano è situato nel territorio di Sovana, sul poggio sopra la via cava di San Sebastiano, dove si trova una necropoli etrusca di tombe "a camera". Sepolcri sono situati su tutta l'area del poggio ma, quelli più importanti, furono scavati proprio sull'orlo del precipizio, da dove si vede il fondo della via cava.
Ecco allora dei pericolosi sentieri, oggi impraticabili, che si aggirano in cima alle pareti della via cava, profonda una ventina di metri e che conducono agli ingressi dei sepolcri.
Uno di questi sepolcri ha una normale porta d'accesso, scolpita su una grande rupe lungo il sentiero principale che attraversa il poggio.
L'interno fu chiaramente manomesso e ampliato in epoca medioevale. Il soffitto in alto, le numerose aperture per fare entrare la luce, e soprattutto le numerose croci incise nel tufo, indicano che qui sorse il romitorio di San Sebastiano, dal nome della chiesina omonima posta a valle.
Tra i graffiti e le incisioni ne risulta una in particolare: un monte sormontato da una croce. E' un simbolo ben conosciuto e rappresenta il monte Golgota, il monte della Passione. Lo si è ritrovato in alcuni romitori della Maremma (Ischia di Castro) ed è ritenuto il segno distintivo di quelle comunità di eremiti, mai grandi di numero, che forse per prime si stabilirono nei luoghi sacri degli Etruschi.
Gli anacoreti trasformarono l'abbandonato sepolcro in una rustica e semplice abitazione rupestre. Qui cercarono di realizzare l'ideale di una perfetta vita cristiana, secondo i modi di un'ascesi purificatrice. Altro compito che a loro spettava era di cristianizzare le genti locali che, nel medioevo, ancora conservavano non poche tradizioni "pagane", cioè di discendenza etrusca.
Dal romitorio, guardando giù nel profondo baratro della via cava, si scorgono incisioni, graffiti, simboli della fertilità, buchi e nicchie. A metà di una parete sono riprodotti i simboli sessuali di Dioniso, l'etrusco Fufluns (o Pacha) e della Madre-Terra (Uni).
Il ritrovarsi di antiche incisioni "pagane" e cristiane in un medesimo luogo sacro è segno di un alternarsi di credenze e culti che, nonostante il trascorrere dei millenni, ha permesso la conservazione dell'originaria sacralità del luogo.
Testo tratto dal libro "Eremiti e Romitori di Maremma", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2001.
Fotografie di Progetto Heba onlus.
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Al di sotto della Rocca Aldobrandesca, prendendo la deviazione a destra appena usciti da Sovana, in breve si giunge presso un ponticello: qui, sulla sinistra, un sentiero discende nel fosso del torrente Folonia.
Sul versante settentrionale del fossato, tra grandi macigni e ombrose querce, si trova una necropoli di tombe a semidado , del III secolo a.C..
Questo tipo di monumenti è formato da un macigno scolpito in forma di semidado, o di cubo, posto in posizione elevata, e dalla sottostante camera sepolcrale, preceduta da un breve dromos (corridoio),
La sommità del semidado era coronata da un cippo funerario, del quale rimangono chiare tracce, mentre la facciata ancora conserva il disegno stilizzato di una porta (dell'aldilà) e alcune iscrizioni con il nome del defunto in caratteri etruschi.
I sepolcri, a pianta quadrangolae, presentano delle banchine di tufo per le deposizioni.
Si ritiene che il semidado (in alcuni casi si tratta di un dado intero, o di un cubo regolare) rappresentasse la stilizzazione della casa etrusca, ma, forse, sembra più verosimile che esso riprendesse le forme dell'ara, o altare sacrificale, e che come tale venisse usato nelle ritualità funerarie.
Verso la parte terminale del fossato in direzione Sud, sono segnalate alcune tombe a camera, datate al VII secolo a.C..
Questi sepolcri di età arcaica confermano come, durante i secoli, vi fosse una continuità nell'uso e nella frequentazione di questi luoghi sacri.
Testo tratto dal libro "Le Città del Tufo della Valle del Fiora", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2016.
Fotografia di autore non identificato
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Lasciata alle spalle la Rocca Aldobrandesca (venendo da Sovana), si discende lungo il sentiero che si distacca a sinistra dalla provinciale per Pitigliano e Sorano.
Il sentiero sfocia sulle rive del fiume Calesine, in località Valle Bona, alle pendici del Monte Rosello, costellato dagli ingressi di alcune tombe a camera.
Un colombario etrusco, datato al IV sec. a.C., si trova sulla sommità del Monte Rosello; il sepolcro, un tempo intonacato e dipinto, ha un rifinito soffitto decorato a cassettoni e pianta cruciforme.
Le pareti del locale sono tutte scolpite con il tipico reticolo di cellette, denominate colombari. Queste celle servivano per deporvi delle piccole urne con le ceneri dei defunti.
In età romana,in questi loculi fu praticato l'allevamento dei piccioni, da qui il nome di colombari ebbe la sua origine.
Ma il monumento più importante è senz'altro la tomba del Sileno (III sec. a.C.), situata a mezza via, sulla parte più elevata del poggio appena descritto.
Continuando questo itinerario si trovano i resti di altre tombe, in stato di notevole degrado, tutte in prossimità del terrazzamento ove è situato il Sileno.
Testo tratto dal libro "Le Città del Tufo della Valle del Fiora", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2016.
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La tomba del Sileno, datata al III sec. a.C., si trova nella necropoli di Monte Rosello ed è situata a mezza via, sulla parte più elevata del poggio, a nord-est di Sovana.
Questa tomba venne scoperta nel 1963, ancora intatta, con un ricco corredo di ceramiche e oggetti in bronzo.
Durante lo scavo si rinvenne una protome a viso di Sileno (fauno, compagno di Pan) e da qui fu dato il nome al sepolcro che, probabilmente, era decorato con diverse maschere di Sileno, appese ed esposte sulla facciata del monumento.
Questo è unico nel suo genere e non ancora attestato altrove: si tratta di una struttura cilindrica, sulla cui superficie sono scolpite in bassorilievo sei semicolonne con capitelli.
Si ritiene che tale struttura sia la forma sintetica e stilizzata di un tempio, cencepita secondo un eclettico ed ardito sintetismo architettonico.
Il sepolcro si trova sotto al monumento e si compone di un corrodoio che immette in un ambiente a pianta rettangolare con la banchina per le deposizioni disposta lungo il perimetro dell'ipogeo.
Testo tratto dal libro "Le Città del Tufo della Valle del Fiora", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2016.
Fotografia di SPECIFICARE
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La Necropoli di Poggio Grezzano si trova sull'omonimo poggio, nella valle del Calesine, sul versante rivolto verso Sovana.
Appena lasciata la strada provinciale, se ci si dirige verso la parte alta
del poggio, seguendo il primo sentiero, si giunge sulla sommità del colle in una platea delimitata da un ampio e preciso taglio delle pareti rocciose.
Qui, nella parte centrale, è situata una tomba a colombario, di presunta epoca etrusco-romana.
Di particolare interesse è il rifinito lavoro, a guisa di alveare, delle numerose cellette parietali, che ricoprono tutte le pareti dell'ampio locale.
Se si prosegue lungo la valle, in basso, a sinistra, dopo circa cento metri, si raggiunge la tomba Pisa (III sec. a.C.) la più grande tomba a camera di tutta l'area collinare.
Proseguendo lungo la vallata, sempre sul versante della tomba Pisa, sono segnalate diverse tombe a camera, a edicola e a semidado, la cui datazione varia dal VII al II secolo a.C..
Sulla parte estrema del poggio, verso la sommità, alcuni blocchi rocciosi, in evidenza tra la macchia, segnalano l'ingresso di una via cava, in parte occlusa dalla vegetazione.
Proseguendo questo itinerario si può giungere sotto Sovana e lì, oltrepassato il Calesine, salire per il sentiero che conduce direttamente al paese.
Testo tratto dal libro "Le Città del Tufo della Valle del Fiora", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2016.
Fotografie di Progetto Heba ONLUS.
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La tomba Pisa si trova nella necropoli di Poggio Grezzano (Sovana) nella valle del Calesine, sul versante rivolto verso Sovana. La tomba, rinvenuta nel 1963 dall'istituto di archeologia di Pisa, da cui il nome, è databile al II secolo a.C. ed è la più grande tomba a camera di tutta l'area collinare maremmana.
La tomba, utilizzata fino al I secolo a.C., durante gli scavi ha restituito parte dell'originale coredo funebre, comprendente ceramiche ellenistiche e parti di decorazioni in bronzo dorato.
All'interno del sepolcro si sussegguono svariati locali, disposti secondo una pianta irregolare e curvilinea e separati tra loro da alcuni semitramezzi. L'accesso alla tomba è preceduto da un profondo corridoio funerario (dromos), lungo 6 metri.
Testo tratto dal libro "Le Città del Tufo della Valle del Fiora", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2016.
Fotografie di Progetto Heba ONLUS.
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Il Colombario di Poggio Grezzano si trova sul lato occidentale della Necropoli omonima.
E' posto al centro di un'ampia platea artificiale in fondo alla quale si apre, a metà della parete, una camera quadrangolare a cui si accede da una serie di gradini.
Tutte le pareti sono occupate da cellette a prospetto quadrangolare. Il soffitto, probabilmente in occasione del riuso come colombaio, conserva traccia del doppio spiovente.
Testo tratto dal libro "Le Città del Tufo della Valle del Fiora", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2016.
Fotografie di Progetto Heba ONLUS.
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testo da sviluppare
Testo tratto dal libro "Le Città del Tufo della Valle del Fiora", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2016.
Fotografie di Progetto Heba onlus.
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La via cava del Pozzone si trova a Pian dei Conati , tra Pitigliano e Sovana.
Probabilmente prende il nome di pozzone dal ricordo di quando il sito fungeva da punto di raccolta (pozzo) delle acque di Pian dei Conati.
Nella parte iniziale della via cava, dalla parte di Pian dei Conati, è visibile una pavimentazione con enormi massi di tufo.
Testi e immagini tratti su concessione dal libro "Le Vie Cave Etrusche - I ciclopici percorsi sacri di Sovana, Sorano e Pitigliano", Giovanni Feo, Laurum Editrice, Pitigliano, quinta edizione 2016.
Fotografie di Tages [1], Luca Bececco [2] e Maurizio Di Giovancarlo [3,4,5].
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La via cava di Monte Rosello si dispiega sul lato orientale di Sovana.
Lasciata alle spalle la Rocca Aldobrandesca, la via cava si raggiunge scendendo lungo il sentiero che si distacca a sinistra dalla provinciale per Pitigliano e Sorano.
La via cava conduce alla Necropoli di Monte Rosello, la cui principale tomba etrusca è quella del Sileno.
Testo di Giovanni Feo.
Fotografie di Progetto Heba ONLUS.
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La via cava di Poggio Prisca è situata sul fianco occidentale del poggio omonimo, l'altura rupestre sede di una vasta necropoli e di celebri tombe monumentali (Ildebranda, Pola, Tifone).
La sacralità di questo sito si impone con evidenza: diversi ettari di territorio sono qui segnati da un imponente lavoro di taglio della roccia tufacea, le tombe e gli ipogei si sussegguono senza sosta, con opere che spaziano dal periodo arcaico a quello ellenistico.
Il paesaggio incolto, ammantato dalla fitta macchia mediterranea, avvolge gli antichi monumenti in una cornice di ferace primordialità.
L'ingresso alla via cava è situato nell'area di sosta, alla base del poggio. Si entra in uno scuro e ciclopico percorso e subito ci si stupisce per le acute curve a gomito, che evocano un tortuoso ingresso agli Inferi o qualche inaspettato incontro con una terioforme creatura del pantheon tirrenico.
Il percorso della tagliata si sviluppa dal basso, fiancheggiando diverse tombe, finchè raggiunge la metà costa del poggio, dove passa davanti alla grandiosa tomba Ildebranda, per poi aggirarla alle spalle e terminare in alto, sulla sommità dell'altura.
E' difficile dire se fosse prima realizzata la via cava e poi la necropoli o se fosse il contrario. L'unica deduzione sicura è che non fu casuale la contiguità di queste due opere, che traevano la loro ragione d'essere nella sfera della sacralità.
Il tipo più comune di sepolcri, in prossimità della via cava di Poggio Prisca così come delle altre vie cave di Sovana, consiste in tombe con il classico dromos, disposte a schiera, con i corridoi funerari paralleli.
Testi e immagini tratti su concessione dal libro "Le Vie Cave Etrusche - I ciclopici percorsi sacri di Sovana, Sorano e Pitigliano", Giovanni Feo, Laurum Editrice, Pitigliano, quinta edizione 2016.
Fotografia di Maurizio Di Giovancarlo [1].
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La via cava di San Sebastiano si trova nel Secondo Settore della Necropoli di Sovana ed è una fra le più impressionanti della Maremma.
Così la descrive Giovanni Feo:
Nella necropoli di Sopraripa, prima della tomba della Sirena e le numerose tombe "a dado", il sentiero giunge all'ingresso della via cava di San Sebastiano.
Vi è lì una fenditura nella roccia, larga circa tre metri, le cui pareti si alzano perpendicolari oltre i 25 metri. La spettacolare entrata di questa tagliata sovrasta il visitatore con le sue spropositate dimensioni, evocando l'ingresso in un mondo di giganti, le cui megalitiche prospettive sgomentano e sorprendono per la loro eccezzionalità.
Arcaici simboli, incisioni a rilievo e iscrizioni sacre appaiono sulla parte alta delle pareti, ad un'altezza tale che ci vorrebbero scale lunghissime per poter leggere e decifrare quei segni.
A metà percorso, una grande fenditura sulla destra conduce su di un poggio che sovrasta la tagliata dall'alto. Qui, tra i resti di una necropoli di tombe a camera, vi è l'ingresso ad un antro scavato sul bordo del precipizio, che s'affaccia pericolosamente sulla profonda tagliata sottostante. L'antro, composto da tre locali comunicanti, conserva diverse incisioni cristiane di epoca medievale; si tratta infatti del Romitorio di San Sebastiano, un rifugio di eremiti, ricavato da una precedente tomba etrusca.
Ritornando nella via cava e proseguendo oltre questa deviazione laterale, si giunge ad un ampio slargo, rovinato da numerose frane che hanno alterato l'aspetto originario del percorso. E' ancora però ben visibile come, in questo punto, la tagliata si allargasse, per poi restringersi nuovamente e proseguire per un breve tratto, sino a terminare all'aperto, sul prato erboso di un'altura da dove il panorama spazia in direzione del monte Elmo e dell'Amiata.
Parco Archeologico Città del Tufo - Via Cava di San Sebastiano
Testi e immagini tratti su concessione dal libro "Le Vie Cave Etrusche - I ciclopici percorsi sacri di Sovana, Sorano e Pitigliano", Giovanni Feo, Laurum Editrice, Pitigliano, quinta edizione 2016.
Fotografie di Maurizio Di Giovancarlo [1,8,9], Luca Bececco [2,6,7] e Walter Fioramonti [3,4,5]
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La via cava del Folonia si sviluppa nel territorio ad Est dell'abitato di Sovana. L'ingresso della via cava si trova a circa 50 metri dalla Rocca Aldobrandesca e si raggiunge percorrendo la breve discesa che, appena usciti dal borgo di Sovana, sulla destra scende al ponte del Folonia.
Qui una breve gradinata conduce alla via cava che inizia subito dopo il guado del Folonia.
La via cava ha una lunghezza di circa 500 metri e termina nella Nacropoli del Folonia.
Testo di Giovanni Feo.
Fotografie di Walter Fioramonti
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Cavone è il nome della via cava più famosa di Sovana. Si tratta di un'opera ciclopica. Il percorso, interamente scavato nel tufo, largo 3-4 metri, alto sui 20 metri e lungo circa mezzo chilometro si snoda sul fianco est di Poggio Prisca all'interno del Primo Settore della Nacropoli di Sovana.
Anche qui, sino alla tarda epoca medioevale, la sacralità del sito fu perpetuata grazie alla presenza di un romitorio rupestre, ricavato in alcune grotte etrusche, sulla parte alta all'inizio della via.
Una nicchia medioevale, con l'effige ormai indefinita della Madonna, è scolpita sulla parete alla base del romitorio, graffiti e incisioni di croci sono rinvenibili in una ripetizione quasi maniacale.
A metà percorso, accanto ad una seconda nicchia cristiana e ad una grande croce incisa, c'è un'iscrizione in caratteri etruschi, affiancata da un'imponente svastica.
L'iscrizione e la svastica rimandano al medesimo simbolismo.
La svastica, simbolo di polarità, centralità e del moto rotatorio attorno ad un centro (e da qui simbolo solare) è in evidente analogia con l'iscrizione dove si legge Vertne, la cui radice Vert rimanda al principale dio etrusco, Veltha (Vertumno), che fu il dio "doppio", dell'essere e del divenire, del cielo e della terra.
Questa iscrizione, l'unica conosciuta in dedica al dio, è spia delle precise valenze spirituali che gli Etruschi associavano alle vie cave.
All'inizio del Cavone di Sovana, in uno spiazzo circolare circondato da tombe e locali rupestri, furono rinvenuti dall'archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli un podio ed i resti di un "tempietto", ai cui piedi erano disseminati centinaia di ex-voto in terracotta, a forma di organi umani. Il luogo, dunque, non solo fu sacro, ma anche reputato fonte di poteri terapeutici.
Testi e immagini tratti su concessione dal libro "Le Vie Cave Etrusche - I ciclopici percorsi sacri di Sovana, Sorano e Pitigliano", Giovanni Feo, Laurum Editrice, Pitigliano, quinta edizione 2016.
Fotografie di autore ignoto [1 e 4], Walter Fioramonti [2] e Guido Cervetti [3].Il testo di questa scheda è coperto da Copyright e ne è quindi vietata la copia, la riproduzione anche parziale o l'utilizzo con qualsiasi mezzo.
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Nella foto una coppella con solco di uso rituale.
Il sito di Pian dei Conati si trova a mezza via tra Sovana e Pitigliano, nei pressi del podere dell'Annunziata. Lo si raggiunge da Sovana percorrendo la via cava del Pozzone o da Pitigliano seguendo la vecchia strada bianca per Sovana.
L'area di Pian dei Conati fu frequentata e "lavorata" fin dalla remota epoca dei primi insediamenti umani nella valle del Fiora. La rarità e l'unicità delle tante lavorazioni rupestri, fanno di Pian dei Conati un eccezionale parco archeologico e naturalistico, che meriterebbe adeguati interventi di tutela e conservazione.
Nel punto in cui si trovano le prime lavorazioni umane si presenta un panorama aperto a 360 gradi. Tra le principali alture del versante settentrionale della valle del Fiora si vedono: Monticchio (San Martino sul Fiora), la Rupe di Cellena, il Monte Labbro, il monte Amiata, il monte Rosso (Sovana), l'Elmo.
Sul terreno sono scolpiti numerosi solchi (car ruts) in strette file ravvicinate, altri si allungano isolati. I solchi sembrano dirigersi verso il maestoso orizzonte montano e verso le montagne che anticamente erano reputate luoghi sacri e dimora degli dei.
Se si segue il percorso dei solchi tracciati in terra, si giunge in un avvallamento dove nella roccia fu scavato un ampio fossato di raccolta delle acque. Il fosso attraversa tutta l'area e confluisce presso un piccolo bacino, un laghetto. Se ne deduce che, forse, i solchi furono tracciati secondo un progetto di regimentazione delle acque. Non è comunque da escludere anche una funzione sacra e rituale, ovvero un antico culto delle acque che ha lasciato numerose e diversificate tracce nella zona. Solchi simili a questi sono diffusi in tutto il Mediterraneo (Sicilia, Sardegna, Francia, Malta....) e sono generalmente considerati manufatti molto antichi (2° - 3° millenio a.C.).
A Pian dei Conati si trovano solchi in più punti, secondo quello che sembra essere stato un complesso progetto di intervento sul territorio, realizzato a raggio molto ampio. Infatti, il percorso dei solchi è singolarmente lungo, lo si può seguire fino a Sovana.
Una tipologia di lavorazioni rupestri, sulle quali permangono molti dubbi quanto alla loro originaria funzione, è quella delle cosidette "coppelle", ovvero piccole vasche rotonde, di varie misure, scolpite sul suolo di tufo. A Pian dei Conati si trovano coppelle di forme spesso diverse, scolpite su alcune rocce e anche in terra. In un sito, in particolare, si trova una coppella di grandi dimensioni (30 cm di larghezza) con un canaletto (15 cm circa di lughezza) che fuoriesce verso i solchi tracciati sul suolo; il prato erboso appare ondulato, poiché copre i sottostanti solchi.
Sono anche rimarchevoli alcune grandi vasche artificiali, di ignota funzione, probabilmente anche queste in relazione al tracciato dei solchi. Il tipo di lavorazione rimanda ad un'atà molto antica, probabilmente preistorica.
Testi e immagini tratti su concessione dal libro "Dalla Preistoria agli Etruschi - Formazione e storia dell'Italia antica", Alberto Conti e Giovanni Feo, Edizioni Effigi, Arcidosso, 2016 e dal libro "Le Vie Cave Etrusche - I ciclopici percorsi sacri di Sovana, Sorano e Pitigliano", Giovanni Feo, Laurum Editrice, Pitigliano, quinta edizione 2016.
Fotografie di TAGES [1] e di Maurizio Di Giovancarlo [2.3.4].
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Il sito archeologico della Biagiola si trova ai Pianetti di Sovana, sul pianoro dove la via cava del Cavone, dopo aver attraversato speroni tufacei costellati di sepolcreti etruschi, esce dalla terra e si inoltra nei vigneti. Il sito ha una notevole importanza per la stratigrafia millenaria che documenta numerose frequentazioni dall'età arcaica fino al medioevo. Oltre alle emergenze etrusche e romane sono particolarmente interessanti i recenti rinvenimenti di testimonianze di una presenza longobarda.
Longobardi di Maremma
Una piccola comunità. Gli archeologi conservano prudenza, ma sperano di aver trovato la prova che il possesso di queste terre di confine da parte del Duca e del Vescovo di Lucca avesse convinto anche uomini e donne longobarde a venire a vivere fra i tufi della Maremma. È una storia del VII secolo dopo Cristo. Storia importante, anello mancante fra i tempi di Roma e l’avvento ufficiale degli Aldobrandeschi. Storia di uno scavo archeologico, cominciato nel 2004, quando appassionati del gruppo archeologico torinese vennero in Maremma per seguire, per conto della Soprintendenza toscana, le tracce di vecchie segnalazioni mai realmente verificate. Avevano buon occhio e bell’intuito, questi ricercatori: ritrovarono, nascosti dalla vegetazione, alcuni muri di costruzione romana.
Tempi lenti, solo cinque anni dopo fu possibile avviare uno scavo. E così si fu certi che, alla Biagiola, qualcuno, in epoche romane, aveva costruito una grande villa, una fattoria, in realtà. C’erano le mura, le fondamenta, un silos, una cisterna, vasche per la raccolta dell’olio e del vino. E, a sorpresa, furono scoperte alcune tombe: erano di altri tempi, di altre genti, risalivano al VII secolo dopo Cristo.
Gli archeologi cominciarono ad avere impazienza: nel 2012 gli scavi ripresero con impegno al Casalaccio, là dove, nei confini del podere della Biagiola, vi erano i ruderi di un casolare. E la tenacia dei ricercatori (e una bella collaborazione fra pubblico Soprintendenza, Comune di Sorano e privati i vignaioli della Biagiola) è stata premiata. Questi scavi stanno facendo luce nel buio degli anni del Medioevo più lontano della Maremma.
Viaggio nel tempo
I Pianetti sono stati molto amati dagli antichi. I primi a costruirvi alcuni muri furono certamente genti arcaiche, probabilmente etrusche: a dimostrarlo vi sono fondamenta in blocchi di tufo ben squadrati. Manovali romani le usarono come base per innalzarvi un alto muro di pietre (un opus reticulatum, una struttura dal disegno a reticolo). In epoca imperiale, primi secoli dopo Cristo, qui sorgeva davvero una villa: è riapparsa anche una pavimentazione in cocciopesto.
Sei secoli dopo, una comunità longobarda sceglie le antiche rovine di quella villa romana come cimitero per i propri defunti. Gli archeologi, nei loro scavi, hanno ritrovato numerose sepolture risalenti all’alto Medioevo (fra il VII e il X secolo dopo Cristo). Si stava perdendo il costume di seppellire i defunti con oggetti importanti della loro vita, ma alla Biagiola si fecero delle eccezioni: almeno due uomini sono stati inumati con un loro corredo funebre. Qui, gli archeologi, finora, hanno trovato quanto rimane di otto scheletri: tre uomini, due donne, un adolescente e frammenti di due persone delle quali non è possibile capire il sesso.
Tomba 558
Un uomo e una donna sono stati sepolti assieme. Uno accanto all’altro. In tempi diversi. L’uomo era importante. Chi lo seppellì gli lasciò una cintura preziosa, simbolo del suo lignaggio e del suo potere. Era un cinturone a pendente. Ne sono rimasti ben quindici frammenti: alcuni sono databili in un tempo precedente al VII secolo e decorati in agemina di argento e ottone.
I minuscoli decori di questi pendenti e delle fibbie sono una traccia per le intuizioni degli archeologi. È un lavoro accurato, compiuto da un bravo artigiano per un notabile: sono motivi geometrici e zoomorfi. Risalgono alla seconda metà del VII secolo. Testi scritti rivelano che ai confini delle terre del Papa, vi erano possedimenti longobardi. Apparteneva ai duchi e al vescovo di Lucca. Questa sepoltura potrebbe essere la testimonianza che qui questo popolo dalle origini germaniche non aveva soltanto presidi militari. Non vi erano soltanto soldati, ma anche coloni, contadini, allevatori.
Tomba 556
Era un guerriero. Un uomo da frontiera. Basso, tarchiato, robusto. Quando morì, chi lo seppellì decise di lasciare al suo fianco la sua arma prediletta. Un lungo coltello da caccia, quasi una spada. È uno scramasax, un’arma con il taglio solo da un lato. Sono state anche trovate tracce di materiale organico del fodero di legno, cuoio e stoffa sulla lama.
Il guerriero è stato sepolto con un rituale: è stata spezzata una chiave e una metà è stata sistemata nella tomba. Per il suo viaggio ultraterreno quest’uomo aveva con sé un pettine d’osso e indossava una cintura: ne sono rimaste alcune guarnizioni in ottone e argento, due fibbie e alcuni rivetti, giunti metallici per rafforzare la pelle con la quale è stata fabbricata.
Testo tratto su concessione dal libro: Musei di Maremma - Il grande Museo di Sorano, Andrea Semplici, Edizioni Effigi, 2016.
Le immagini si riferiscono a beni di proprietà del Polo Museale della Toscana e sono qui pubblicate su autorizzazione concessa da.......... Fotografie di Mario Papalini.
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Inoltre si sottolinea che le immagini di beni culturali pubblicate in questa scheda non possono essere in alcun modo riprodotte senza la preventiva autorizzazione della Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo.
Il Romitorio di Sovana è situato vicino al paese, sul fianco meridionale della galleria che porta da Sovana alla necropoli di Sopraripa. I suoi resti testimoniano di un importante, anche se ignoto, insediamento religioso.
Il percorso per raggiungere il sito non è facilmente accessibile in quanto attraversa degli orti appartenenti a privati. L'area è però di notevole interesse, ricca di una varietà di resti sia etruschi che medioevali. Anche qui sono visibili numerose sepolture antiche. Si notano soprattutto tre colombai; cimiteri a loculi appartenuti ai ceti più umili della società etrusca. Accanto ad un grottino, all'interno del sentiero, si apre uno stretto e buio cunicolo. Questi enigmatici passaggi sotterranei vengono attribuiti agli etruschi ma, oltre a ciò, gli archeologi non sanno né perché furono scavati, né se avessero una funzione pratica, in molti casi non si conosce nemmeno dove conducano. E' un mistero irrisolto. Forse erano usati all'interno del culto funerario, è un'ipotesi verosimile, avanzata da qualche studioso.
Risalendo i terrazzamenti del poggio si arriva ad un'alta e perpendicolare parete di tufo. Al di sopra è situata la parte terminale del paese di Sovana, affacciata su questa lunga valle sacra dove si contano una decina di necropoli etrusche, disposte contiguamente lungo i versanti tufacei dei poggi.
Il romitorio
La grande e alta parete di tufo rossiccio venne lavorata e ne furono ricavati sei locali rupestri disposti a schiera.
Il primo, verso ovest, riconoscibile per quello che sembra un altare cubico, dovette ospitare la chiesa del romitorio.
Sulle pareti, erosi e quasi illeggibili, appaiono affreschi trecenteschi raffiguranti dei santi. Le pitture erano di buona fattura, ancora si riconoscono greche e ornati a colori che, un tempo, impreziosivano con toni vivaci la chiesina scolpita nella roccia. Si tratta di una forma di arte sacra che, per lunghe ere del nostro passato, lasciò nel territorio opere d'arte inimitabili, frutto di una visione a metà tra schietto naturalismo e sentito misticismo.
Nella seconda grotta, accanto alla chiesina ruoestre, il locale è segnato da un'architettura complessa, di non facile lettura.
Sul soffitto è scolpito un lungo trave sagomato che potrebbe essere il rilievo scultoreo di una tomba etrusca. Nella grotta, di ampie dimensioni, compaiono numerose nicchie quadrangolari,appaiate, a forma di cornici, il cui interno è vuoto. Una serie di scalini passa accanto a un basso grottino "a forno" e sale verso la parte alta del locale; una seconda parte, più bassa, si trova sotto l'attuale pavimento, ora ricoperto di strati di resti organici depositativi dagli ovini che qui furono alloggiati.
Il complesso rupestre è ricco di svariati tipi di lavorazioni, numerosi grottini si vedono anche all'esterno; di alcuni, interrati, si riconosce un pezzo della volta o l'ingresso semicoperto da terriccio.
Un terzo locale si trova a fianco ai due già menzionati, ed è un ampio colombaio, in parte crollato ma ancora integro nella parte più interna, costellata dalle tipiche cellette parietali.
In questo luogo di eremiti, appena fuori Sovana, l'impressione più immediata che si ricava dal ricco ambiente rupestre è che l'habitat naturale, più i resti della sacralità etrusca, devono aver determinato negli eremiti la precisa scelta di insediarsi in questo sito che, in termini cristiani, fu percepito come ricco di "grazia" e dimora di elevazione spirituale. br>
La fede nella pietra: oratori rupestri nel territorio di Sovana
Testo tratto dal libro "Eremiti e Romitori di Maremma", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2001.
Fotografie di Maurizio Lippi
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Lungo la provinciale che da Sovana porta a Sorano, poco prima del bivio per Pitigliano, sulla sinistra è situato un enigmatico e singolare monumento: un grande macigno scolpito a forma di mano.
La tradizione popolare tramanda che la mano fosse magicamente nata a causa del paladino Orlando, che avrebbe stretto il masso in preda ad un incontenibile fervore mistico, durante l'assedio di Sovana condotto da Carlo Magno.
Questomonumento, molto probabilmente, risale ad un'epoca più antica del medioevo. Secondo alcune ipotesi, il masso sarebbe servito per dare consistenza alle funi di canapa, fatte scorrere tra le dita della mano.
Un'altra ipotesi attribuisce alla mano la funzione di osservatorio del territorio, funzione resa possibile dall'osservare l'area circostante attraverso le scanalatura tra un dito e l'altro.
Infine, la mano potrebbe risalire ad un contesto culturale dell'era megalitica, quando fu consuetudine l'erezione di grandi pietre, aventi funzioni magico-sacrali. Una certa somiglianza con la Mano di Orlando si può ravvisare in alcuni menhir inglesi dei quali si riportano di seguito le immagini. [N.d.R.]
Testo tratto dal libro "Le Città del Tufo della Valle del Fiora", Giovanni Feo, Editrice Laurum, Pitigliano, 2016.
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